Nel 1999 l’Argentina veniva dall’ “allegro” Governo Menem tra feste, donne, pubblicità, liberalizzazioni clientelari ed evasione fiscale alle stelle. Chi subentrò si ritrovò seppur con un’inflazione bassa, a fronteggiare il crollo del PIL, una moneta forte come il dollaro di allora, croce e delizia, che trascinava la moneta argentina ma ne limitava e la spinta produttiva e finanziaria, un paese in stagnazione economica e sociale, la disoccupazione a doppia cifra, specie quella giovanile vicina al 30% e la piena sfiducia di investitori e capitali. Il debito pubblico, ovviamente era ai massimi storici. Si disse anche lì che il paese era solido e che le banche erano forti. Il governo aveva due strade: dichiarare la fine della parità peso/dollaro ed avviare una svalutazione controllata ed una serie di riforme oppure quella meno impopolare, continuare a mettere benzina nel carburatore bucato, nell’illusione del “pareggio di bilancio”. Il titolare dell’economia, una delle migliori menti sudamericane, Domingo Cavallo scelse la seconda con riduzione di servizi e duri tagli fiscali (fino al 13% su pensioni e pubblico impiego). Le soluzioni parziali non diedero alcun risultato, anzi, le persone andarono nel panico, ritirarono denaro, lo trasferirono ed allora il governo passò al congelamento dei prelievi, al rialzo dei prezzi delle operazioni bancarie, al blocco . Era il dicembre 2001. Il resto lo sappiamo: cinque presidenti in due settimane, incidenti, imprese fallite, investitori con carta straccia in mano, disoccupati al 30%. L’Argentina si salvò…andando alle elezioni, con un nuovo ed abile ministro dell’economia moderato, Roberto Lavagna. Dopo il default l’Argentina iniziò a limitare le sue importazioni e ad esportare, quindi a produrre, soprattutto nel settore agricolo ed anche l’emissione di titoli divenne più fruttuosa, seppur meno redditizia per i privati. Venne riformato completamente l’assetto politico-economico, fissato un tetto per gli stipendi parlamentari, tassate le rendite finanziarie, eliminate alcune delle esenzioni all’imposta sul reddito, ridotta progressivamente l’IVA, rinegoziato il debito. Questo gli permise di ripagare in parte il debito pubblico e di ripartire da una posizione debole sui mercati ma forte socialmente. Potete confrontare, pur con le dovute differenze, la situazione argentina e quella italiana attuale. Sarà difficile non trovarvi tratti comuni ed il guaio sarebbe compiere gli stessi errori senza gli stessi rimedi. L’Argentina ha avuto il coraggio di ripartire. Ed inoltre è uno stato federale, senza spostare dicasteri nelle Pampas. Per fare questo tutti noi, primo chi governa, non dovrremmo pensare che il tormentone “Finiremo come l’Argentina” sia come lo spauracchio infantile “Arriva l’uomo nero”, ma una pericolosa e vicina realtà.
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andrea corno 09/ago/2011
Angelo D'Addesio 09/ago/2011
andrea corno 10/ago/2011
Angelo D'Addesio 10/ago/2011
andrea corno 10/ago/2011
Angelo D'Addesio 10/ago/2011
Argento 25/ago/2011
Angelo M. D'Addesio 25/ago/2011